Il coronavirus non colpisce soltanto gli anziani ma anche una fascia di popolazione più bassa d’età. Proprio come la vedova di 38 anni di Bergamo che ha deciso di raccontare la sua storia.
La donna colpita dal coronavirus ha temuto per i suoi bimbi piccoli che, senza di lei sarebbero soli.
Una mamma che ha paura per i suoi figli
Iniziano ad arrivare le testimonianze degli affetti da coronavirus. Questa della vedova 38 enne con tre bambini ha commosso molti. La donna ha deciso di inviare la sua lettera al quotidiano online Prima Bergamo. Dalle sue parole si legge tutta la sofferenza che i pazienti malati di covid-19 ricoverati in ospedale, stanno patendo. Oggi la donna è riuscita a respirare autonomamente da sola e a rinascere a vita nuova.
Il suo racconto
La lettera della donna è stata pubblicata integralmente da Prima Milano Ovest. All’inizio della confessione, la donna racconta di come il coronavirus sembrasse, in primis, una malattia orientale, lontana e sicuramente non una minaccia. Soltanto dopo il primo caso di contagio a Codogno la donna ha iniziato a temere un po’ di più anche se, la distanza tra Bergamo e il paese focolaio, la rassicurava. Ma i contagi non sono stati circoscritti e arrivano anche nella bergamasca.
Era il 26 febbraio quando la donna si svegliò con la febbre. Episodio davvero raro per lei. Perciò, decide di contattare il numero verde e le viene detto di allontanarsi dai figli. Tra i sintomi, oltre la febbre, incapacità di percepire odori e sapori, occhi brucianti, afonia, senso di spaesamento, mal di testa. Soltanto dopo due settimane di febbre, il medico le prescrive l’antibiotico. Ma, il 3 marzo, la donna non riesce a respirare e si rivolge al 112. Viene condotta all’ospedale Ponte San Pietro che lei ricorda come un girone dell’inferno a causa della nottata trascorsa al freddo distesa su una barella, insieme ad altre decine di malati come lei. Ricorda che il personale non era preparato a gestire una tale emergenza. La diagnosi è bronchite, perciò venne dimessa.
Non ci volle molto affinché la febbre risalisse, il respiro si facesse più corto e comparisse anche il vomito. Venne portata, dunque, all’ospedale di Bergamo. Soltanto qui, dopo il triage, le venne fatto il tampone e risultò positiva. In data 8 marzo risale il ricovero in penumologia dove, dato che non respira bene, le venne fatto indossare il casco.
“Mi stringe al collo, mi sento strozzata, l’ansia mi fa salire la sensazione d’esser sepolta viva. Assumo Lexotan per rilassarmi. Dentro il casco la sensazione è pazzesca. Un rumore continuo, una ventola nelle orecchie che introduce ossigeno da destra e scarica anidride carbonica a sinistra. Non capisco cosa mi dicono e non posso nemmeno leggere il labiale perché sono tutti con le mascherine. Tv, telefonate, tutto inutile. Sono sola con me stessa, le mie paure e i miei pensieri”.
Si legge dalla lettera. La donna era costretta a letto senza potersi lavare ne fare i bisogni. Anche i suoi genitori vennero ricoverati. L’unico appiglio era la preghiera nonostante i ripetuti annunci di decessi di parenti ed amici.
Nella sua lettera la donna non fa a meno di menzionare il lavoro di medici ed infermieri, i veri eroi di questa brutta pagina di storia. E non manca di ricordare l’ospedale come un mondo parallelo dove ha instaurato dei rapporti ma dove ha avuto anche modo di toccare con mano paura e sofferenza, sua e dei pazienti come lei.
C’è voluto del tempo affinché guarisse. Il 21 marzo scorso è stata dimessa benché il tampone fosse positivo. Il suo monito è quello di rispettare le regole poiché:
“Questa non è una semplice influenza. Tutti possiamo essere contagiati e contagiare”.