Riaffiorano nuovi cruciali aspetti che gettano uno spiraglio di luce sulla tragedia avvenuta 30 anni fa.
Il testimone disposto a parlare per 2 milioni di lire di un coinvolgimento mafioso è solo uno dei contenuti disseppelliti. Così ripartono le indagini sulla vicenda di Moby Prince, l’imbarcazione tristemente nota, che bruciò e affondò in una tragedia-enigma.
Una fuga di gas
Forse è un fatalità che Moby Prince richiami, nel nome, il noto romanzo di Herman Melville. Entrambe le storie si dispiegano tra le acque salate, in ambedue c’è una lotta contro il male e infine in ognuna delle vicende rimane un unico superstite.
La differenza maggiore è che il racconto più antico è frutto dell’immaginazione, invece il più recente è reale e con un finale ancora aperto.
Il dramma ebbe luogo sul Tirreno, a largo del porto di Livorno, la sera dell’11 Aprile 1991, quando la nota Moby Price entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Dell’equipaggio del traghetto, composto da 141 marinai, 140 morirono. L’unico sopravvissuto fu il mozzo.
Le indagini avrebbero individuato le cause della violenta esplosione in una fuga di gas.
I documenti dimenticati
Ma adesso riemerge un fascicolo “fantasma” che mette in luce aspetti rimasti clamorosamente fuori fuoco per 3 lunghissimi decenni.
La riesumazione del documento è avvenuta grazie al progetto Armadio della Memoria, con cui la Regione Toscana promulga la cultura della legalità e mantiene vivo non solo il ricordo del disastro in prossimità delle coste livornesi, ma anche la tragedia ferroviaria nella stazione di Viareggio nel 2009 e il naufragio della Costa Concordia al Giglio nel 2012.
I protagonisti nelle registrazioni “ritrovate”
Affiora una strada per le indagini importante, sebbene incomprensibilmente abbandona: la possibile presenza sulla nave (precisamente a prua) di esplosivi legati all’ingerenza della mafia.
È quanto emerge da una registrazione, che potrebbe dipanare il giallo.
Infatti tra le informazioni “trascurate” e ripescate, c’è la trascrizione di una conversazione a tre voci.
I protagonisti sono l’armatore Vincenzo Onorato, Renato Roffi, che era a capo dell’ufficio sicurezza della capitaneria di terra della città toscana e Francesco Lazzarini alla presidenza del Comitato Familiari delle vittime di Moby Prince, associazione che ebbe brevissima vita (si formò poco dopo la tragedia e si sciolse prima che il processo avesse inizio).
Ne verrebbero fuori i dubbi dell’armatore, riportati da Lazzarini, tra cui alcuni accadimenti attribuiti alla concorrenza e dissidi interni alla compagnia tra un figlio, Vincenzo, volenteroso di approfondire la tesi dell’esplosione, e un padre, Achille ostile alla volontà dell’erede.
Ma il colpo di scena è il riferimento (sempre all’interno delle conversazioni), ad un testimone, “un malavitoso”, disposto a parlare per due milioni di lire. È delineato brevemente agli interlocutori il contenuto dell’eventuale testimonianza: la presenza a prua di materiale esplosivo nascosto e di proprietà della mafia.
Da precisare che il magistrato Luigi De Franco chiuse il fascicolo della strage da qualche mese, quando approfondì il caso e fece quell’aggiunta oggi sotto la lente di ingrandimento. Fu un articolo che uscì sull’Unione Sarda il 16 ottobre del 1994 a indurlo al ritorno alle indagini.
Il giornalista Alberto Testa scriveva dell’esistenza di una registrazione in cui Vincenzo Onorato sosteneva l’ipotesi dell’esplosione innescata della Corsica Ferries, la compagnia sarda di navigazione concorrente.
Una volta ultimati i lavori di ricerca, gli ulteriori sviluppi furono trasmessi dal magistratoal giudice Roberto Urgeste, che però non diete alcun seguito alla ricezione delle straordinarie informazioni.
Non furono richiesti ulteriori accertamenti e quattro persone accusate di non aver soccorso l’equipaggio, furono scagionate.
Adesso spetta alla commissione del Senato appurare quanto non è stato fatto negli ultimi decenti.