La quarta serata del festival di Sanremo ha ospitato Beatrice Venezi. Amadeus, nel presentarla, ha sottolineato che il “direttore” d’orchestra ha espressamente chiesto di non essere definita “direttrice”.
Nelle professioni il femminile, secondo Beatrice Venezi, metterebbe l’accento sul genere e non più sul lavoro svolto. La dichiarazione ha infuocato l’opinione pubblica.
Non chiamatemi al femminile
Beatrice Venezi, 31 anni, famosa per dirigere orchestre in tutto il mondo, arriva bellissima nel suo abito lungo sul palco di Sanremo. Neanche il tempo di percorrere la sfavillante scalinata e spiega il proprio diniego a non voler essere chiamata “direttrice”.
“Il mestiere ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra”
L’affermazione ha provocato non poche critiche. L’accaduto pare mostrare come, sia dalle donne fautrici del maschile, sia tra quelle orgogliose del femminile, la questione del genere delle professioni sia molto sentita.
Una questione di grammatica e di mentalità
Dalla sfilza di voci dissonanti a quella Venezi, emerge che grammaticalmente ci sia un’imprecisione grammaticale e che la mentalità plasma il linguaggio.
Così Vera Gheno, una che di parole se ne intende, ha indicato l’errore. La sociolinguistica non si è sentita indignata dall’affermazione del noto direttore d’orchestra. Ognuno è libero di definirsi come meglio crede.
Invece le dispiace che la motivazione addotta da Venezi per la propria scelta sia falsa. Non è vero che il suo mestiere non si possa declinare anche al femminile. Sarebbe un’affermazione linguapiattista, come l’ha definita la sociolinguistica.
Della stessa idea è il linguista Giuseppe Antonelli che, sul Corriere della sera, difende a spada tratta la lingua italiana. Seguendo lo stesso pensiero, l’infermiera Alessia Bonari avrebbe potuto dire:
“Il mio mestiere ha un nome preciso ed è quello di infermiere”
Sdrammatizza così Antonelli, che ripercorre la storia della parola direttrice: esiste dal Medioevo per indicare una linea, da fine Settecento è utilizzata per riferirsi alle dirigenti donna e solo nei primissimi anni del Novecento entra negli ambienti della musica italiana, quando la prima “donna direttrice” entrò nel politeama di Livorno.
Tra gli interventi sulla scottante questione, Laura Boldrini ha notato come che per certi ruoli lavorativi si accetta il femminile (operaia, commessa, contadina), per altri più sù nella scala sociale invece si omette, nella convinzione che il maschile sia più autorevole.
“È un atteggiamento che non rende merito al percorso che tante donne hanno fatto per raggiungere queste posizioni”.
La scrittrice e sceneggiatrice Carolina Capria esprime empatia per la nota professionista nell’ambito della musica classica.
“Siamo tutte state Beatrice Venezi”
Spiega che tutte (o quasi) hanno guardato agli uomini con ammirazione e desiderio, perché sembrava si divertissiro molto di più e si occupassero di aspetti rilevanti.
“Ho iniziato a rispettarmi chiamandomi al femminile.”
Una nuova consapevolezza raggiunge Capria quando conosce l’autorevolezza al femminile, così si libera delle autodefinizioni maschili.
“Il rigetto della declinazione femminile ha alibi fantasiosi che studiose più preparate di me hanno ampiamente demolito”
Ha invece detto Michela Murgia. La scrittrice sarda pluripremiata non è mai stanca di ricordare come il linguaggio sia lo specchio delle “strutture di potere” che sorreggono la società.
Pertanto l’uso del maschile, riferito alle donne o dalle donne a se stesse, sarebbe un modalità per sottolineare un’irregolarità: essere eccezionalmente al posto che spetterebbe, di prassi, a un uomo.