In questi giorni, ma in realtà da anni, il centrodestra ha riiniziato a parlare di flat tax. Misura cara soprattutto a Matteo Salvini, che già l’aveva introdotta nel 2019 quando governava insieme al MoVimento 5 stelle, e Silvio Berlusconi, è una riforma del fisco – e infatti è stata inserita nel programma della coalizione nel quarto punto. A cosa serve però nel concreto e a chi potrebbe essere rivolta? Questo punto ancora non è stato chiarito perché, probabilmente, i tre leader dovranno ancora discuterne
Se, da una parte, Salvini vuole un’aliquota al 15%, il Cavaliere la propone al 23%, mentre Giorgia Meloni, numero uno di Fratelli d’Italia, è un po’ più cauta sulla questione e la sua idea di tassa piatta è limitata ai redditi incrementali, cioè all’eventuale quota di imponibile dichiarato che superi i livelli dell’anno precedente: ovvero ciò che recita il quarto punto del programma.
Cosa è e come funziona la flat tax che vuole il centrodestra
Non è la prima volta che si sente parlare di flat tax. Prima in campagna elettorale per le politiche del 4 marzo 2018, poi durante l’anno in cui Matteo Salvini e la Lega sono stati al governo con il MoVimento 5 stelle, la cosiddetta tassa piatta è stata un argomento molto importante di discussione, e non solo per gli economisti e per gli studiosi del settore.
Prima di addentrarci in quelle che sono le proposte, contrapposte, della coalizione del centrodestra, cerchiamo di spiegare in parole povere cosa effettivamente la riforma fiscale che i tre leader (chi più, chi meno) introdurrebbero se dovessero vincere le elezioni del 25 settembre – perché, ebbene sì, anche questa volta, la flat tax è diventata uno slogan da campagna elettorale, ed è stata inserita nel quarto punto di “Per l’Italia”, ovvero il programma di governo di Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderati.
In scienza delle finanze, la tassa piatta, calcolata come percentuale costante, è un sistema fiscale non progressivo, basato su un’aliquota fissa, al netto di eventuali deduzioni o detrazioni fiscali. Di solito si riferisce alle imposte sul reddito familiare, e solo talvolta sui profitti delle imprese, tassate con un’aliquota fissa. Fu ideata per la prima volta nel 1956 dall’economista statunitense Milton Friedman.
In pratica, eccetto per chi rientra in una determinata soglia di reddito – e anche su questo ci sono delle divisioni interne nella coalizione di centrodestra -, e quindi rientra nella no tax area, il reddito di tutti gli altri lavoratori (stessa cosa detta sopra) dovrà essere tassato alla stessa percentuale.
Facciamo un esempio: un dipendente, che non lavora quindi con la partita Iva, che guadagna all’anno 20mila euro lordi, dovrà pagare il 15% dell’imposta sul reddito, ovvero 3000 euro. Questo già succede a chi rientra nel regime forfettario del lavoro indipendente, quindi è a partita Iva, e non ha una nuova attività (in quel caso, l’imposta è del 5%), come è stato introdotto nella legge di bilancio del 2019, voluta, dicevamo, da Salvini.
Ecco, il numero uno del Carroccio, prima che invocasse a sé i pieni poteri e di fatto segnasse la sua condanna a morte come ministro degli Interni nel governo Conte 1, aveva pensato a una flat tax che si sarebbe dovuta poi estendere a famiglie e imprese, progetto tramontato con la maggioranza sostenuta dal Partito Democratico e dai Cinque stelle.
L’idea nella testa del Capitano e del suo partito è uguale a quella proposta quattro anni fa: procedere in maniera graduale all’abolizione dell’Irpef, ovvero l’imposta sul reddito delle persone fisiche, che invece si basa su quattro scaglioni, per arrivare alla flat tax. La percentuale dell’aliquota, secondo Salvini, si dovrebbe attestare per tutti al 15%, con una detrazione di 3.000 euro sul lordo in base a quanto si guadagna e se si hanno figli a carico. I redditi sotto i 7mila euro non pagano. Per Silvio Berlusconi vale più o meno lo stesso principio, ma l’aliquota dovrebbe salire al 23%, leggermente di più, e la no tax area dovrebbe essere estesa per i redditi fino ai 12mila euro.
Poi c’è Giorgia Meloni, decisamente la più cauta della coalizione in materia fiscale. Anche nel suo videomessaggio in inglese, francese e spagnolo ha spiegato di quanto sia importante far quadrare i conti, e quindi la sua idea di flat tax è esattamente quella che si legge nel programma che è stato diffuso giovedì. E prevede l’estensione per le partite IVA fino a 100.000 euro di fatturato, più una flat tax su incremento di reddito rispetto alle annualità precedenti, con la prospettiva di un ulteriore ampliamento per famiglie e imprese. Niente, insomma, che possa nuocere davvero al sistema fiscale italiano.
Flat tax, pregi e difetti del sistema fiscale proposto dal centrodestra
Usata come bandiera da sventolare in faccia a chi propone la patrimoniale (Enrico Letta, segretario del Pd, per esempio), la flat tax ha sia pregi, sia difetti, e secondo alcuni pecca anche di incostituzionalità.
Per quanto riguarda i punti a favore, ci sarebbe sicuramente la riduzione della pressione fiscale sia per le famiglie, sia per le imprese, e una semplificazione del sistema con la razionalizzazione delle attuali detrazioni. Con imposte più basse, oltretutto, si potrebbe arginare e contrastare il fenomeno tutto italiano dell’evasione fiscale.
I contro sono quelli ventilati dai più nelle vignette che circolano in rete, ovvero avvantaggiare i ricchi. Se la pressione fiscale, a parte per chi non guadagna a sufficienza per essere tassato, è uguale per tutti, va da sé che chi ha un reddito più alto dovrà sborsare molti meno soldi di chi guadagna nella media. Il 15% 0 23% sarebbe sul totale, è vero, ma avrebbe un peso completamente diverso sia nel bilancio del singolo, sia in quello dello Stato.
Proprio su questo, in base all’articolo 53 della Costituzione che dice che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività“, la riforma che vogliono i leader di Forza Italia e Lega potrebbe incontrare un po’ di problemi.