Il Covid continua a tormentare l’estate degli italiani, che ormai è agli sgoccioli. E la situazione potrebbe non essere la migliore anche nell’autunno e nell’inverno prossimo. Intanto, gli studi vanno avanti ed evidenziano delle novità decisamente interessanti sugli effetti e sulla possibile prevenzione del virus. Non solo, perché c’è da discutere anche sul long Covid e su quante persone effettivamente l’abbiano provato sulla loro pelle. Ci ha pensato, ancora una volta, Matteo Bassetti.
Molti di voi, sicuramente la maggioranza, ha provato a dimenticare il Covid, ma in pochi, purtroppo, ci saranno riusciti. È vero che, se non si lavora in ambienti sanitari o non ci si deve recare, se non si prendono mezzi di trasporto pubblico, e comunque in pochi altri casi, la mascherina è già molto meno utilizzata come strumento preventivo. Ad ogni modo, l’allerta è ancora alta, e non tanto per i casi che comunque ci sono e persistono nei vari tessuti della popolazione, ma perché è scattato l’allarme per i disturbi neuropsicologici che possono essere diretta conseguenza del nuovo Coronavirus, e ora vi spieghiamo meglio il perché.
Il Covid e i disturbi neuropsicologici: cosa sappiamo e cosa è stato scoperto
Un tempo, neanche troppo lontano, indossare mascherine in pubblico, organizzare riunioni spensierate e senza conseguenze con gli amici, partecipare a eventi e concerti con un gran numero di persone era solo un piacere e non motivo di ansia. Dal quel maledetto 2019, invece, il Covid è arrivato a importunare la vita di tutti noi e da allora non ci ha più lasciato in pace.
La maggior parte delle persone che sta leggendo questo articolo sa già di cosa stiamo parlando, per esperienza diretta o vicina comunque. Fatto sta che l’ultima ondata estiva che ora sta andando scemando, ma che ha fatto registrare un numero molto alto di casi, ha fatto intendere come non si possa vivere come se il virus non fosse tra di noi. E tutto ciò senza citare il fatto che in moltissimi ormai preferiscono non tracciarsi e monitorarsi autonomamente, con tamponi rapidi fai da te, e quindi senza essere registrati dalle rilevazioni ufficiali. E anche il sistema di monitoraggio Gimbe l’ha scritto nei suoi ultimi report e avvertendo su come diversi dati debbano essere letti anche attraverso questo dato di fatto e quindi presi con le pinze
Insomma, la svolta è arrivata, perché le maglie sono più larghe, soprattutto dopo l’avvento e la somministrazione di diverse dosi di vaccino, però occhio che il virus non è scomparso e soprattutto non è endemico e in molti potrebbero nuovamente restare bloccati in casa. Con o senza sintomi.
Proprio questo è un punto importante da affrontare, perché ci sono delle novità. Inizialmente, al Covid erano imputate soprattutto conseguenze influenzali. E quindi tutta quelle serie di manifestazioni che va da una febbre persistente, al raffreddore, al mal di gola, brividi, sintomi gastrointestinali e via così. Nei peggiori casi, l’infezione è in grado di provocare una polmonite interstiziale bilaterale e quindi grossi problemi respiratori, ma con il vaccino sono sempre di meno i casi che arrivano fino a quel punto e per fortuna.
Ora l’ultimo rapporto dell’Università Cattolica, in unione con La Stampa, ha messo in luce una realtà fino ad ora un po’ più nascosta, e quindi inascoltata, sugli effetti del Covid. Infatti, diversi studi internazionali hanno evidenziato novità scientifiche riguardo il fatto che il virus attacchi il cervello, causando un’ampia gamma di disturbi neuropsicologici. Effetti che sono stati dimostrati tramite indagini cliniche sui contagiati e quindi sul campo.
Una novità, ma fino a un certo punto. Infatti, già in passato erano stati effettuati degli studi condotti attraverso una serie di autopsie delle vittime da sindrome respiratoria acuta grave a seguito dell’epidemia del 2003, e ,ad esempio, hanno rivelato sequenze del genoma SARS-CoV in tutta la corteccia e l’ipotalamo. Che non ce n’è solo uno a cui fare riferimento, ovviamente. Poi ci sono stati i casi di pazienti infettati dalla sindrome respiratoria mediorientale (MERS-CoV) e anche in questo caso sono state identificate lesioni diffuse in diverse regioni del cervello, tra cui la sostanza bianca e le aree sottocorticali di più lobi.
Il meccanismo con cui i virus penetrano nel cervello sono, di solito, ascrivibili al superamento della barriera emato-encefalica, che si configura comunque come una prima linea di difesa contro l’infezione virale. E questo avviene dopo la compromissione delle strette giunzioni tra le cellule endoteliali microvascolari cerebrali.
E i disturbi causati? Possono essere di un’ampia gamma, ma in generale sono solitamente ascrivibili a disturbi cognitivi e problemi nel tornare al funzionamento quotidiano. Per non parlare poi della pressione a cui la psiche può essere soggetta, che possono sfociare in veri e propri disturbi psichiatrici. Occhio, quindi, ai disturbi cognitivi a lungo termine che la pandemia potrebbe lasciare in eredità dopo anni di Covid e che non sono affatto un fattore da sottovalutare nel medio-lungo periodo. Oltre a questo, però, ci sono anche altre riflessioni da fare riguardo al nuovo Coronavirus.
L’attività fisica come scudo per il virus e le ultime riflessioni di Bassetti sul long Covid
C’è anche uno studio che ha circolato molto negli ultimi giorni e che potremmo considerare, invece, in positivo per proteggersi e prevenire il contagio e la malattia espressa dal Covid. Spesso, per il cancro e per un ampio raggio di patologie, la regolare attività fisica è considerata un fattore essenziale di prevenzione, appunto.
Beh, ora sappiamo che quei fidati consigli possono essere applicati anche al Coronavirus e con dei parametri ben precisi. L’ipotesi è già in auge e parte da una ricerca spagnola pubblicata online sul “British Journal of Sports Medicine”. Si legge, semplificando il tutto, che un’attività fisica regolare possa essere collegata a un minor rischio di infezione da Sars-CoV-2. E allo stesso modo è anche minore la gravità della malattia che ne consegue.
Ci spiegano, inoltre, che la migliore protezione deriverebbe da 150 minuti settimanali di attività fisica moderata o, in alternativa, da 75 minuti di movimento con un’intensità vigorosa. Gli autori di questo studio tanto interessante sono Yasmin Ezzatvar dell’Università di Valencia e i suoi colleghi. Non è l’unico studio che va in questa direzione. Altri lavori hanno suggerito che l’attività fisica possa giocare quest’effetto di scudo protettiva contro le infezioni respiratorie. Un effetto che in generale è dato dalla capacità di rinforzare il sistema immunitario.
I ricercatori hanno anche tentato di dare un senso a questi studi rispetto al legame con Covid, ma attualmente non c’è una risposta certa. Molto probabilmente sono coinvolti sia fattori metabolici sia ambientali, riducendo così i rischi di infezione, quelli di ricovero e di morte in ospedale.
Le attenzioni dei ricercatori si sono poi concentrate sui livelli e sui tempi di attività fisica necessari. Gli autori dello studio sono andati avanti ponendo la loro attenzione su tre importanti database di studi a riguardo, pubblicati tra novembre 2019 e marzo 2022. Alla fine, hanno incrociato i risultati di sedici lavori. Gli studi hanno incluso un totale di 1,8 milioni di adulti, e considerando poco più della metà di donne; l’età media dei partecipanti era fissata a 53 e gli esaminati non arrivavano dalla stessa nazione, ma da diverse parti del mondo.
Dopo la totalità dell’analisi dei dati, è emerso che coloro che avevano una regolare attività fisica nella loro routine settimanale avevano un rischio inferiore dell’11% di infezione da Covid e soprattutto un rischio inferiore del 36% di ricovero in ospedale. Se poi si passa al rischio di sviluppare una malattia grave, siamo a una percentuale più bassa del 43% di morte per Covid rispetto ai loro coetanei fisicamente inattivi.
E, per chi da oggi si sia convinto che per troppi motivi è la soluzione giusta, ecco come fare. L’effetto protettivo massimo è fissato a circa 500 minuti Met (Metabolic Equivalent of Task) per ogni settimana. E qui torniamo al principio, perché questa quantità equivale a 150 minuti di attività di intensità moderata o a 75 minuti di attività intensa. Con tutte le vie di mezzo del caso. Si tratta di uno studio molto interessante, ma che comunque ha dei limiti costituiti dalla possibile interazione con altri fattori non presi in considerazione e che può essere riferito solo alle varianti beta e delta del Covid, non all’Omicron.
Comunque la si voglia vedere e a prescindere dai minuti di attività e dai dati in generale, l’esercizio fisico regolare di intensità moderata aiuta le risposte antinfiammatorie del corpo, migliora forma cardiorespiratoria e la condizione muscolare. Tutti questi, senza spingerci troppo oltre, sono già effetti che aiutano non poco se si incontra il Covid, ed esso è in grado di esprimere la malattia.
Una malattia che, molti di voi hanno sperimentato, può aumentare il suo raggio e sfociare nel long Covid. Ci sono cliniche e centri sanitari che se ne stanno occupando in maniera specifica, per quanto è diffuso, ma c’è anche chi nelle ultime ore sta tirando il freno e avvertendo sul rischio di errate diagnosi.
Stiamo parlando di Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del policlinico San Martino di Genova. Diventato famosissimo durante la pandemia e con una cassa di risonanza che conduce direttamente in politica, Bassetti si è soffermato sull’argomento attraverso un post su Facebook: “Nelle ultime settimane mi è capitato di curare e seguire persone erroneamente etichettate come long Covid e post Covid, che nella realtà avevano altri problemi di salute, non adeguatamente diagnosticati”. Un allarme al contrario, ma che comunque non deve essere sottovaluto, che il long Covid non è un calderone dove inserire tutto.
Bassetti continua la sua analisi: “Avevano infezioni fungine polmonari, polmoniti batteriche da Legionella e pneumococco, forme di malattie neurologiche demielinizzanti, neuriti post-erpetiche e tante altre cose”. Poi la dura sentenza: “Ormai il long Covid è diventato, in molti casi, un diagnosi empirica, che va quasi una moda, quando non si capisce cosa abbia il paziente e non si voglia o non si possa approfondire la diagnostica e il ragionamento clinico”.
Parole pesanti, quelle di Bassetti che, come è solito fare, parte dalle evidenze sperimentali che lui stesso è in grado di cogliere e analizzare per poi approdare a una valutazione complessiva. Nella continuazione del post, il virologo alza il livello d’attenzione e parla del lavoro del San Martino, che – dice – è stato tra i primissimi a incontrare e curare il long Covid, ma si tratta comunque di quadri molto più rari e soprattutto meno gravi. Infine, dà un’informazione molto importante proprio riguardo i vaccini: “Ora che arriverà quello aggiornato su Omicron 1, occorre fare il richiamo entro ottobre”.
E proprio sul tema dei vaccini, dobbiamo darvi conto dell’ultima analisi del Niguarda di Milano. Per chi si fosse soffermato sulle miocarditi giovanili causate dalle somministrazioni, ora ci sono dati concreti. A riportare l’esito dello studio è l’Adnkronos, che evidenzia che il vaccino per il Covid può provocare dieci casi su centomila, se si prendono a riferimento i giovani dai 16 ai 30 anni, un’infiammazione del cuore.
Lo studio è stato effettuato dal Cardiocenter dell’ospedale Niguarda di Milano ed è stato spiegato da Enrico Ammirati, cardiologo del Cardiocenter di Niguarda, sostenuto dalla fondazione De Gasperis: “Il rischio di una miocardite da vaccino è reale ma non è chiaro se e quanto dipenda da fattori individuali”. La concentrazione di questi casi in quella determinata fascia di età è ancora al vaglio, ma le ipotesi sul campo virano verso la possibilità che dipenda da fattori ormonali e non solo proprio dal vaccino per il Covid.
Ammirati comunque, spiegando i dati in essere, dice senza poter essere smentito: “Il rischio del miocarditi da vaccino non cancella l’utilità della vaccinazione”. E da questo punto, nessuno può discostarsi, perché comunque le somministrazioni sono state e sono uno strumento essenziale per contenere la diffusione e la malattia espressa dal Covid. Un punto di partenza e di arrivo che non può essere dimenticato, anche un anno dopo la campagna vaccinale che ha permesso di arrivare a un’altissima percentuale di persone vaccinate in Italia e che ha avuto conseguenze enormi nella lotta al virus. Ora non siamo più a quel punto, ma l’attenzione del mondo della sanità resta altissima, come gli studi portati a termine per saperne di più, che non fa assolutamente male.