Sono almeno 4 milioni e 900mila i fuori sede in Italia. Chi per motivi di studio, chi perché lavora, non hanno la residenza nel posto in cui, di solito, abitano e, in vista delle politiche del 25 settembre, in cui non hanno il diritto di votare. Molti di loro, sono impossibilitati a tornare a casa sia a causa del tempo di percorrenza, sia per i costi proibitivi degli spostamenti. Nessuno garantisce loro la possibilità di esprimersi alle elezioni, mentre gli italiani residenti all’estero o altre categorie di persone che non vivono dove risiedono possono farlo
Ci sono comitati che combattono per loro queste battaglie, e c’è anche una proposta di legge del Partito democratico sulla questione. Doveva essere discussa il 25 luglio alla Camera, ma la caduta del governo l’ha messa in stallo. Con l’astensionismo che galoppa, c’è chi è costretto a non votare non per causa sua.
Elezioni 25 settembre, tra gli astensionisti c’è anche chi non può votare: la storia dei fuori sede
L’articolo 48 della Costituzione afferma che “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge“.
Eppure, non per tutti è così. Non lo è soprattutto per i tantissimi fuori sede, persone che, per lavoro o per motivi di studio, vivono in un luogo diverso rispetto a quello in cui hanno la residenza. Sono oltre 4,9 milioni, più di un decimo di quelli che effettivamente hanno i requisiti per poter votare, e hanno tutti storie diverse.
Perché non c’è solo il costo proibitivo di alcuni trasporti a limitare questi italiani di seconda categoria a esercitare un loro diritto, che è anche un dovere civico, c’è anche una durata degli spostamenti che per il 38% di loro va oltre le due ore, si legge nel dossier, voluto dal ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, “Per la partecipazione dei cittadini – Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto“, confluito poi nel Libro bianco. A volte, poi, sono entrambi i fattori a incidere e a decidere per i fuori sede.
Altro che astensionisti (volontari), insomma. Sono solo dei giovani, per lo più, gli stessi a cui si è rivolto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, al meeting di Rimini, definendoli la “speranza della politica“, che a differenza dei residenti all’estero, che votano per corrispondenza, o malati e militari a cui viene data la possibilità di esprimersi altrove rispetto al comune di residenza o alla sede delle elezioni, a cui non spetta nessun diritto.
Il voto per i fuori sede, le proposte in Parlamento e le istanze dei comitati
E anche chi cerca di aiutarli, o chi parla in nome loro, non viene ascoltato. “Siamo nati nel 2008 – ha detto Stefano La Barbera, presidente del comitato “Io voto fuori sede” – e ancora oggi la politica non ha dato una risposta alle nostre istanze“. In realtà, però, ci avevano provato, soprattutto Marianna Madia, deputata dal Partito democratico.
Nella proposta di legge 1714, presentata il 28 marzo del 2019, e che doveva essere discussa alla Camera il 25 luglio si tentava di “trovare un punto di equilibrio tra l’insopprimibile esigenza di non alterare la rappresentanza, e dunque la democraticità delle istituzioni rappresentative, da un lato, e la necessità, da un altro lato – anche per contrastare l’astensionismo – di permettere a tutti i cittadini di esercitare realmente il proprio diritto-dovere di voto“. Come, però?
All’articolo 1 veniva data la possibilità di “esercitare il proprio diritto di voto nel comune in cui hanno eletto il domicilio” a tutti coloro i quali si trovano fuori sede, appunto. Bastava presentare domanda in via telematica, tramite l’identità digitale SPID, almeno quarantacinque giorni prima della data prevista per lo svolgimento della consultazione elettorale.
A questa si doveva allegare il “certificato di iscrizione presso un’università la cui sede centrale si trovi in una regione diversa da quella in cui l’elettore ha il comune di residenza“; “una copia del contratto di lavoro, o una certificazione del proprio datore di
lavoro, se la richiesta è presentata da un lavoratore domiciliato in un comune situato in una regione diversa da quella dove si trova il comune nelle cui liste elettorali risulta iscritto“; “un certificato medico che attesta la necessità di eleggere il domicilio in un comune situato in una regione diversa da quella dove si trova il comune nelle cui liste elettorali risulta iscritto, se la richiesta è presentata per motivi di cura“.
Non solo, nella proposta veniva data anche la possibilità di votare per corrispondenza, seguendo sempre le stesse modalità, ma con in più una busta che doveva arrivare al seggio elettorale in cui il fuori sede avrebbe dovuto votare entro il sabato precedente alle consultazioni. E poi c’era anche una legge delega con cui il governo si sarebbe poi dovuto attivare per trovare delle modalità telematiche per consentire, ancora una volta, di esprimere il proprio consenso anche a chi, adesso, è escluso.
La caduta del governo presieduto dall’ex presidente della Banca centrale europea non ha consentito che si discutesse la proposta di legge di Madia, e le polemiche dei tanti fuori sede, che invece vogliono una sorta di “smart voting“, sono cresciute.
Specie perché si incrociano con le accuse di chi crede che ai giovani non interessi più votare. La realtà è ben lontana, e un cambiamento in questo senso darebbe risposte ben più importanti che usarli ai fini elettorali, e per promesse che probabilmente non verranno mantenute.