La Commissione Europea ha proposto di bloccare il 65% dei fondi di coesione, circa 7,5 miliardi di euro, all’Ungheria di Viktor Orban perché non rispetta alcuni parametri sul diritto penale e sulla corruzione imposti da Bruxelles. La decisione arriverà al Consiglio dell’Unione europea il 22 settembre, ma potrebbe slittare fino a novembre per una sorta di grazia concessa a Budapest.
I problemi, però, potrebbero essere solo rimandati per l’Ungheria: è vero, ci sarebbero due mesi di tempo per approvare delle leggi e mettersi in linea con quanto richiesto dall’Unione europea, ma non è detto che siano sufficienti. Come extrema ratio, però, Orban potrebbe fare affidamento (anche) su Giorgia Meloni per riuscire a ottenere la maggioranza qualificata in Consiglio ed evitare il taglio dei fondi.
La Commissione europea vuole tagliare i fondi di coesione all’Ungheria, ma non adesso
Dopo il voto al Parlamento europeo sul rapporto che ritiene l’Ungheria un’autocrazia elettorale, i problemi di Budapest con l’Unione europea non sono finiti, affatto. La Commissione, infatti, proprio ieri ha proposto un taglio dei fondi di coesione per Viktor Orban del 65%, circa 7,5 miliardi di euro.
Una precisione è d’obbligo: i fondi in questione non hanno niente a che vedere con il Next Generation Ue (con cui l’Ungheria ha comunque dei problemi), ma sono finanziamenti ad hoc con cui l’Ue assiste gli Stati membri con un reddito nazionale lordo pro capite inferiore al 90% della media dell’Unione stessa. Gli obiettivi del fondo sono la riduzione delle disparità economiche e sociale e la promozione dello sviluppo sostenibile. Per il periodo 2021-2027, sono stati stanziati per i 15 Paesi che ne beneficiano 42,6 miliardi di euro.
La richiesta della Commissione, per bocca del commissario al Bilancio, Johannes Hahn, arriverà il 22 settembre al Consiglio dell’Unione europea, ovvero l’altro organo esecutivo che riunisce i capi di stato e di governo dei 27 Paesi membri, ma verranno dati altre tre mesi di tempo a Budapest per mettersi a posto con le direttive di Bruxelles. “Vogliamo che le misure ungheresi siano in linea con le nostre richieste e sancite nella legge. Torneremo a valutare la situazione il 19 novembre“, ha detto l’austriaco in conferenza stampa.
Due mesi in più in cui il governo di Orban potrà sistemare le debolezze dello stato di diritto del Paese, quindi legiferando sulla poca trasparenza negli appalti pubblici, sulla mancata indipendenza della magistratura e sull’assenza di misure per lottare contro l’eccessiva corruzione.
Il processo di ammodernamento, se così si vuole chiamare, è in corso già da aprile, quando la Commissione di Ursula von der Leyen, tramite una lettera, aveva chiesto all’Ungheria di correggere alcuni aspetti della sua legislazione. La risposta arrivata tra agosto e settembre non ha soddisfatto i vertici di Bruxelles, che però hanno comunque deciso di concedere altro tempo all’esecutivo di Budapest per evitare il blocco dei fondi.
E quindi nei prossimi giorni ci si aspetta che dal Parlamento ungherese ci sarà l’approvazione di una serie di misure, tra cui la creazione di una nuova autorità anticorruzione. La ministra della Giustizia, Judit Varga, su Facebook, ha scritto inoltre che “anche la Commissione europea ha riconosciuto che abbiamo raggiunto insieme risultati positivi in molti campi dopo i recenti colloqui“, salvo poi precisare che il lavoro “è tutt’altro che finito“.
Ungheria, l’extrema ratio può essere il salvataggio tramite Meloni
Un autunno intenso attende l’Ungheria, ha detto la stessa ministra. Se, però, dalla Commissione non dovessero ancora ritenere le riforme idonee, la palla passerà veramente al Consiglio dei 27. A novembre, verosimilmente, a rappresentare l’Italia non ci sarà più Mario Draghi, ma Giorgia Meloni (mancano ancora sei giorni alle elezioni e una settimana agli scrutini, quindi si tratta di supposizione), la stessa leader del partito che, mercoledì, ha votato contro il rapporto di Strasburgo e che poi ha difeso Orban.
Proprio alla numero uno di Fratelli d’Italia, il primo ministro ungherese potrebbe affidarsi, in extrema ratio, per salvare i fondi di coesione, secondo rivelato da un retroscena della Stampa. Ma andiamo un attimo con ordine.
Con il nuovo meccanismo di condizionalità, approvato dal 2020, per approvare il taglio dei finanziamenti non è più necessaria l’unanimità dei voti in Consiglio, ma è sufficiente la maggioranza qualificata: 15 Stati, in pratica, che rappresentano almeno il 65% della popolazione dell’Unione europea, possono scegliere di bloccare le iniezioni all’Ungheria, oppure il contrario.
Per “salvare” Orban, basterebbero di fatto quattro capi di governo o di stato che rappresentano più del 35% dei cittadini Ue. L’Ungheria potrà contare (quasi) sicuramente su Bulgaria, Romania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, per due motivi: ricevono i fondi di coesione pure loro e pure loro hanno avuto dei problemi con lo stato di diritto. Insomma, in una sorta di solidaristica utilità potrebbero essere pronti ad aiutare Budapest. I loro voti, però, non sarebbero sufficienti.
E quindi si sta iniziando a guardare oltre. Alla Svezia, per esempio: con il nuovo governo di centrodestra, appoggiato da un partito di estrema destra come i Democratici Svedesi, il primo ministro potrebbe avere un alleato in più, ma ne servirebbe comunque un altro di maggiore peso. Ed è qui che entra in campo Meloni. Con il 13,4% della popolazione dell’Unione europea, avere l’Italia dalla sua sposterebbe non poco gli equilibri a favore di Orban, ottenendo quindi nessun taglio dei finanziamenti.
D’altra parte, però, potrebbe essere un rischio non da poco per la leader di Fratelli d’Italia che sta cercando di riaccreditarsi agli occhi dell’Unione europea e che tutto vuole meno che essere messa da parte a livello internazionale. La palla non è ancora arrivata, in ogni caso, ma sarà solo lei a decidere come e dove fare gol, ammesso, certo, che riesca veramente a vincere le elezioni del 25 settembre. Chissà.