Il mutamento di Giorgia Meloni da sovranista a europeista (quasi) convinta è quasi completato, probabilmente manca qualche tassello, ma il più è già stato fatto. A garantire per lei c’è Mario Draghi, l’attuale presidente del Consiglio, a cui la leader di Fratelli d’Italia succederà nelle prossime settimane. Anche se dalla comunicazione del presidente smentiscono la ricostruzione.
Un patto, tra l’ex presidente della Banca centrale europea e Meloni, che passa da tre capisaldi della politica di Draghi: si deve continuare con le sanzioni alla Russia e con il sostegno all’Ucraina, non si deve tentennare rispetto alla Nato, non si deve fare un nuovo scostamento di bilancio. Niente di difficile, in effetti, dato che parte della campagna elettorale della futura presidentessa del Consiglio si è basata proprio su questi aspetti. Ma è bene ribadirlo, considerato il voto al Parlamento europeo sull’Ungheria del gruppo di FdI e degli alleati in coalizione della leader.
Il patto tra Draghi e Meloni passa da tre condizioni. E lui smentisce
Mario Draghi e Giorgia Meloni si preparano al passaggio di consegne. Un atto dovuto considerate le percentuali che ha ottenuto la leader di Fratelli d’Italia alle elezioni di domenica, e che ovviamente l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea è caduto in estate. Eppure lui ha avuto bisogno di qualche garanzia in più da parte di chi lo succederà a Palazzo Chigi.
Per il bene dell’Italia chiaro, ma anche per continuare un processo di riforme e di credibilità internazionale che non metterebbe il nostro Paese in un angolo né in Europa, quindi soprattutto nell’Unione europea, né nel mondo occidentale, dunque agli occhi degli Stati Uniti.
Le chiacchierate per mettere tutte le cose in chiaro sono state avviate prima dell’esito delle elezioni – d’altronde, che Meloni avrebbe vinto lo si sapeva da molto prima che si aprissero le urne e si contassero i voti – e si è arrivati, quindi, a questi giorni già preparati, hanno detto da Repubblica.
Ma da Palazzo Chigi hanno smentito: “Il Presidente del Consiglio non ha stretto alcun patto né ha preso alcun impegno a garantire alcunché. Il presidente del Consiglio mantiene regolari contatti con gli interlocutori internazionali per discutere dei principali dossier in agenda e resta impegnato a permettere una transizione ordinata, nell’ambito dei corretti rapporti istituzionali“, si legge nella nota diffusa dall’entourage di Draghi.
In cambio di uno sponsor in Germania, Francia e in Commissione europea, quindi con Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Ursula von der Leyen, confermato da fonti diplomatiche di Berlino, di Parigi e di Bruxelles, il premier avrebbe chiesto alla futura prima presidentessa del Consiglio donna della storia d’Italia di rispettare tre capisaldi della sua politica: sostegno pieno all’Ucraina anche con il continuo invio di armi e prosecuzione delle sanzioni per la Russia di Vladimir Putin, nessun tentennamento con la Nato e nessuno scostamento di bilancio, così che non si debba fare nuovo debito.
Tutti temi che, in effetti, la numero uno di FdI aveva già ampiamente sviscerato in campagna elettorale, tanto che molto spesso si sono creati dei problemi con Matteo Salvini, suo alleato nella coalizione del centrodestra e probabilmente membro dell’esecutivo (ma non in Ministeri chiave) che Meloni guiderà.
Forse è proprio a causa di Lega e, in parte, Forza Italia di Silvio Berlusconi che Draghi doveva firmare un patto, non in senso letterale, con la sua succeditrice. In realtà, però, anche lei avrebbe fatto storcere il naso al banchiere romano per alcune sue uscite pubbliche.
La svolta di Meloni sull’Ungheria per piacere a Draghi
Per esempio sull’Ungheria. In più di un’occasione, Meloni ha detto di non volere un’Europa con due categorie distinte, quindi quella dei Paesi dell’est e quella di Francia e Germania, banalmente – lo ha ribadito anche nella chiacchierata prima delle elezioni da Bruno Vespa.
Sempre in merito al governo di Viktor Orban, al Parlamento europeo, il suo gruppo ha votato contro la maggioranza, quindi contro il rapporto che dipingeva lo stato caucasico come un’autocrazia elettorale e non una repubblica.
Ha anche detto, dal palco di un comizio, che con lei capo dell’esecutivo in Italia a Bruxelles sarebbe finita la pacchia. Ma così, pare, non sarà: perché un conto è parlare in campagna elettorale, un altro è vedersi messa all’angolo nei salotti e nelle aule che contano davvero, perciò sì, nel giro di qualche ora (o qualche settimana, dipende dai punti di vista) quello che andava professando in questo senso è stato sconfessato dal patto fatto con Draghi e dalla garanzia che solo lui può fargli avere in ambito internazionale.
Non c’è arrivata da sola, così come solo non ha lavorato il premier uscente. Le chiacchierate hanno coinvolto anche Antonio Funiciello, il capo gabinetto di Draghi, Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il ministro dell’Economia, Daniele Franco, Giuseppe Chiné, capo gabinetto del Tesoro, Giovanbattista Fazzolari, uomo di Meloni che quasi sicuramente prenderà il posto di Garofoli, Guido Crosetto e altri tecnici di Fratelli d’Italia.
Sul tavolo, in qualche meeting più o meno segreto, tra l’altro c’era anche la Nadef, ovvero la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, un dossier su cui, per forza di cose, si dovrà lavorare insieme, considerati i tempi esigui per il futuro esecutivo di approvare la legge di bilancio.
Quanto a Crosetto, fin da subito al fianco di Meloni nel partito dunque perfettamente in linea con la numero uno e a conoscenza di quello che vuole fare, non ha escluso che al capo dell’esecutivo di ora possano essere affidati degli incarichi internazionali. Nel 2023, infatti, si dovrà nominare il segretario generale della Nato, e la carica piacerebbe tanto a lui, quanto a Washington, quanto alla stessa presidentessa del Consiglio, che avrebbe un ulteriore ombrello di protezione per il suo governo.
Tutto, chiaramente, per il bene del Paese.