Il no della Cina alla condanna del golpe, la scomparsa di Aung San Suu Kyi, i motivi dei generali per la rinuncia all’accordo fruttuoso con The Lady e un popolo, unico attore a poter ribaltare le sue sorti.
Il Paese è precipitato nella mani dell’esercito e dell’isolamento, ai blocchi di internet e aereo, si aggiunge il mancato sostegno alla democrazia delle Nazioni Unite.
Il diniego cinese
Mentre piovono condanne dal G7 e dai governi del globo sul Golpe in Myanmar avvenuto lunedì 1 febbraio, la Cina decide il ritiro dal dispiegarsi del dissenso internazionale.
Nei lavori del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di ieri 2 febbraio, Pechino ha disegnato il finale che lascia spazio d’azione ai generali: boccia la bozza contente la richiesta del ripristino della democrazia nel Myanmar.
Ha il suo peso che il “Paese amico del Myanmar”, come si è autodefinito nelle parole del ministro degli esteri, debba difendersi da avvenimenti simili a quelli che lascia scorrere, anzi protegge, sotto gli occhi del mondo.
Ad esempio il trattamento riservato agli Uiguri, l’etnia mussulmana e turcofona che vive nella regione Xinjiang. Alla minoranza rivolti gli appositi campi di rieducazione.
Ma l’amico cinese aveva già spalleggiato nel 2017 l’esercito, a cui allora fu imputato il genocidio dei Rohyngia.
Inoltre i due Paesi, oltre che essere accusati da vedute communì rispetto i diritti umanitari, sono partner commerciali.
Che fine ha fatto The lady?
Nel frattempo di Aung San Suu Kyi, la leader democratica di Myanmar, non si ha traccia. Non v’è alcuna certezza sul luogo in cui si trova.
Un esponente del partito di The Lady, la Lega nazionale per la democrazia, da notizia che sarebbe bene e agli arresti domiciliari. Un documento della polizia indicherebbe come data della fine degli arresti il 15 febbraio.
Intanto un’altra accusa cade sulla combattente senza armi, quella di detenere mezzi comunicazione.
Le notizie sono ancora tutte da appurare; fare breccia nel muro d’isolamento comunicativo ha le sue difficoltà.
La fine di un equilibrio vantaggioso ai generali
Gli esperti invitano a indagare le ragioni, a individuare le radici, a giungere ai perché del rifiuto di quell‘equilibrio tra i brutali militari e il premio Nobel per la pace.
Giacché la stramba convivenza intessuta tra due forze contrapposte portava i suoi benefici ai generali: al fianco della nota attivista hanno rinnovato, seppur parzialmente, la propria immagine, ma soprattutto hanno abbattuto della contumacia di una condanna perpetua.
Così avevano spezzato le catene economiche, lo spazio di manovra commerciale si è ampliato. Hanno condotto trattative che prima, senza l’attivista premio nobel, non avrebbero affrontato.
E molto probabilmente nella figura del generale Min Aung Hlaing sono racchiusi molti perché.
Di lui, tranne l’imputazione di genocidio e la palese appartenenza alla casta militare, non si sa molto. Molto riservato, non tollererebbe la lady e con essa la controparte democratica. Avrebbe voluto spazzarli via nelle ultime elezioni. Ma ha clamorosamente fallito.
Inoltre è vicino al 65 genetliaco, l’età della pensione, nota Guido Santevecchi sul Corriere della Sera. Allora i tempi sarebbero stretti per riportare la casta al pieno potere e concludere la carriera cencellando l’umiliazione cocente dovuta al sopravvento della signora.
L’unico modo, com’è evidente, è stato incarcerare e zittire gli insopportabili contendenti.
La reazione civile del popolo, è allerta
Le proteste non mancano, seppure nel Paese sono ben conosciuti i metodi repressivi della casta.
Da una parte c’è la rivolta simbolica delle piccole azioni: fragore di pentole e clacson sonanti nell’oscurità della notte.
Dall’altra quella forte dello sciopero di medici, infermieri e lavoratori degli ospedali di 30 città.
La ribellione del popolo birmano pare essere l’unica carta possibile lì dove i moniti delle associazioni internazionali e dei governati esteri non hai mai attecchito.